Quando l’FBI studiò il Bigfoot…

Non solo gli UFO, anche il Bigfoot… L’FBI- il Federal Bureau of Investigation- nel corso della sua storia più che secolare si è occupato di dischi volanti, lo sapevamo, come testimonia il celebre “Guy Hottel Memo”, l’informativa scritta nel 1950 da un agente speciale sullo schianto di un velivolo tondeggiante con strane creature a bordo avvenuto in New Mexico. Ma ora scopriamo che l’FBI ha studiato anche l’Uomo-scimmia che popolerebbe le foreste americane.

L'IMMAGINE PIÙ FAMOSA DI UN BIGFOOT

L’IMMAGINE PIÙ FAMOSA DI UN BIGFOOT

Nei giorni scorsi, il governo degli Stati Uniti ha infatti reso noto un dossier relativo a questo  caso curioso. Contiene alcuni ritagli di giornale e lo scambio epistolare intercorso, negli anni ’70 del secolo scorso, tra un cacciatore di mostri e un funzionario dell’agenzia investigativa, di solito incaricata di indagare sul crimine organizzato, il terrorismo, i reati federali e lo spionaggio. Ma quella volta, veniva chiesto di verificare l’esistenza del mitico Bigfoot sulla base di un reperto biologico.

L’uomo, Peter Byrne, appassionato di mistero e da decenni in prima linea nella ricerca di una prova definitiva sull’esistenza di questo ominide segnalato con nomi diversi in ogni angolo (remoto) del mondo, il 26 agosto 1976 scrisse la prima lettera all’FBI nella quale, su carta intestata all’associazione che dirigeva, The Bigfoot Information Centre and Exhibition, chiedeva se per caso fossero in possesso di materiale organico riconducibile ad uno di questi cugini alla lontana dell’uomo.

L'INCARTAMENTO RELATIVO AL CASO

L’INCARTAMENTO RELATIVO AL CASO

“Gentili signori, per stabilire le cose in modo chiaro  una volta per tutte, volete cortesemente informarci se l’FBI ha esaminato dei peli che potrebbero essere quelli di un Bigfoot; quando questo è avvenuto, se è avvenuto; quali erano i risultati dell’analisi”. Infatti, spiegava, girava voce che l’ufficio federale avesse fatto esaminare dei campioni provenienti da un presunto Bigfoot e che non era stato possibile confrontarli con nessuna creatura nota del continente americano.

“Per favore- aggiungeva Byrne, perorando la sua causa e forse già immaginando il ghigno di derisione sul volto di chi lo stava leggendo- comprendete che la nostra ricerca è una cosa seria e che questa è una domanda seria che necessita di una risposta.” E non dovevano preoccuparsi: la loro collaborazione non sarebbe stata presentata come un diretto coinvolgimento dell’FBI con la sua associazione né come una conferma dell’esistenza del leggendario Uomo Selvatico.

IL CACCIATORE DI MOSTRI, PETER BYRNE

IL CACCIATORE DI MOSTRI, PETER BYRNE

Ci si aspetterebbe che il funzionario di turno, letta la missiva, dopo essersi fatto una bella risata, la archivi in modo rapido cestinandola. Invece, all’epoca, il vicedirettore della divisione tecnica-scientifica dell’agenzia governativa, Jay Cochran Jr., rispose alla richiesta di Byrne. Il 10 settembre 1976 gli scriveva: “Dalla pubblicazione dell’Atlante dell’Ambiente di Washington nel 1975, che faceva riferimento a queste analisi, abbiamo ricevuto diverse richieste simili alle sue. Tuttavia, non siamo stati in grado di individuare alcun riferimento a tali esami nei nostri file.”

La gentilezza di Cochran ha forse convinto il cacciatore di mostri ad un passo ulteriore. Nella lettera successiva, in data 24 novembre 1976, gli chiedeva un favore: la possibilità, allora, di far analizzare nei loro laboratori all’avanguardia un reperto che Byrne considerava molto interessante. “Non ci capita spesso di trovare dei peli che non siamo in grado di identificare e quelli che abbiamo adesso, circa 15 capelli attaccati ad un piccolo pezzo di pelle, sono i primi ottenuti negli ultimi sei anni che riteniamo possano essere importanti.”

UNA FOTOCOPIA DEL CAMPIONE ESAMINATO DALL'FBI

UNA FOTOCOPIA DEL CAMPIONE ESAMINATO DALL’FBI

Ai tempi, il 50enne Peter Byrne aveva una certa notorietà. Aveva parlato di lui anche il New York Times e la sua ricerca aveva ricevuto il sostegno anche dell’Academy of Applied Science. Il giornalista sottolineava che la maggior parte degli avvistamenti della creatura chiamata Bigfoot o Sasquatch nel nord America erano falsi o inconsistenti, ma anche che gli indizi raccolti da Byrne sembravano invece più credibili. Insomma, il ricercatore godeva di buona fama. Forse proprio grazie a questo articolo (trovato nell’incartamento del caso), il funzionario dell’FBI decise di dare seguito alla richiesta.

In un memorandum, Jay Cochran giustificava così la sua scelta di fare un’eccezione ed autorizzare l’esame di  quei reperti:  “Questo non rappresenta un cambiamento nella politica del Bureau. La Divisione Laboratorio già in passato ha reso disponibili i suoi servizi e le sue competenze uniche all’Istituto Smithsonian, ad altri musei, università e agenzie governative in ambito archeologico e nell’interesse della ricerca e di una legittima inchiesta scientifica“. Così il test venne effettivamente realizzato. Con esiti, però, diversi da quelli che auspicava Byrne.

LA LETTERA CON L'ESITO DELLE ANALISI

LA LETTERA CON L’ESITO DELLE ANALISI

Nel dossier, è presente infatti la lettera che nel febbraio 1977 Cochran inviò al vicepresidente dell’Academy of Applied Science, Howard S. Curtis. “I peli che avete recentemente consegnato al laboratorio dell’FBI per conto del “Bigfoot Information Centre and Exhibition” sono stati esaminati mediante microscopio a luce trasmessa e luce incidente. L’esame ha incluso uno studio delle caratteristiche morfologiche come la struttura delle radici, la struttura midollare e lo spessore della cuticola in aggiunta ai calchi in scala. Anche i peli sono stati confrontati direttamente con quelli di origine nota con un microscopio comparativo. Si è concluso a seguito di questi esami che i peli appartengono alla famiglia del cervo. Il campione verrà restituito come allegato a questa lettera.”

Dunque, esito negativo. Ma a rendere la storia ancora più curiosa è che Peter Byrne non ha mai ricevuto questa missiva. Oggi ha 93 anni e il pioniere della ricerca dell’Uomo-Scimmia ha appreso con stupore la risposta dell’FBI. Anche perché l’ha ottenuta a 40 anni di distanza dalla sua richiesta. ”Lo stiamo scoprendo giusto ora, che delusione”, è stato il suo commento riportato dal Washington Post. E anche se lui, di persona, non ha mai visto un Bigfoot, resta convinto che esista, in virtù delle testimonianze raccolte nella sua lunga vita. “Ho intervistato troppe persone concrete, sane di mente e di buon senso”, ha detto. “Troppe persone perché siano storie inventate.”

SABRINA PIERAGOSTINI

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