Un monastero nepalese, un reperto misterioso, una star di Hollywood e un museo inglese: sono i protagonisti di una vicenda che sembra un film. Invece è una storia vera, diventata di pubblico dominio solo di recente, con un finale appena rivelato, ma il cui inizio risale ad oltre 50 anni fa…
1958. Durante una spedizione in Himalaya, sulle tracce dell’Abominevole Uomo delle Nevi, un giovane ricercatore, Peter Byrne, si ferma nel tempio di Pangboche. Uno sherpa gli racconta che proprio in quel monastero è custodita da tanti anni la mano di uno Yeti: molto più grande di una mano umana, coperta da una pelle scura, annerita dal tempo e dal fumo delle candele, con le dita ormai secche e ricurve.
Tornato a Londra, Byrne racconta tutto allo sponsor della missione scientifica, l’americano Tom Slick, ed al professor William Osman Hill, un primatologo appassionato di criptozoologia. “Me la devi portare, la devo assolutamente esaminare”, gli dice il professore. Ma è impossibile, spiega Byrne: i monaci ritengono che la mano dello Yeti sia un portafortuna e non se ne vogliono separare per nessun motivo, altrimenti la sciagura si abbatterà su loro.
Viene allora deciso un piano alternativo. Byrne deve ritornare al tempio nepalese e convincere il lama a dargli- dietro compenso- almeno un dito dell’essere misterioso che sarà rimpiazzato con un altro simile, ma di una persona deceduta, che Hill stesso gli consegna, avvolto in un fazzoletto.
Come far arrivare, in Gran Bretagna, quell’antico reperto biologico evitando i controlli? Nessuna paura, spiega Slick: ci aiuterà una coppia di amici. Niente meno che James Steward e sua moglie Gloria, all’epoca in India. Scatta dunque l'”operazione Yeti”. Byrne riesce- donando 100 sterline al tempio- a farsi consegnare un dito mummificato e lo sostituisce con quello umano. Poi lo affida a James Steward. La moglie, nel timore di essere perquisita alla frontiera, lo nasconde nella valigia in mezzo alla sua lingerie. Ma il bagaglio, nel viaggio verso Londra, va smarrito.
Tutto vano, insomma? No, perchè un solerte funzionario dell’aeroporto di Heatrow ritrova la borsa e la consegna alla legittima proprietaria rassicurandola: “Un gentiluomo inglese non controlla tra la biancheria di una signora.” E lì, tra collant e reggiseni, c’è ancora l’oggetto trafugato che il professor Hill tanto desiderava.
Ma a questo punto, del dito dell’Uomo-Scimmia si perdono le tracce. Per decenni nessuno ne sente più parlare. Fino a quando, nel 2008, dagli scaffali pieni zeppi di reperti anatomici umani ed animali del Royal College of Surgeons’ Hunterian Museum di Londra, emerge la collezione donata nel 1975 da William Osman Hill: incluso un grosso dito mummificato lungo 9 centimetri e largo 2 che una nota scritta a mano dal primatologo attribuisce ad uno Yeti. La notizia arriva alla stampa e un cronista della BBC, incuriosito, indaga. Riporta così alla luce questa rocambolesca vicenda che diventa argomento di un documentario.
Non è finita, però. A questo punto, bisogna ancora capire se dentro quella scatola dimenticata da 50 anni ci sia davvero qualcosa di unico, che possa provare una volta per sempre l’esistenza di questa creatura leggendaria descritta dai secolari racconti degli sherpa. L’unico modo per saperlo è sottoporre il reperto al test del Dna. La BBC ottiene dal museo un piccolissimo frammento per poter procedere all’esame. Ad assumere l’incarico sono i ricercatori della Zoological Society of Scotland di Edimburgo. I risultati definitivi arrivano poche ore fa, in diretta sulla radio di Stato, Radio 4.
Il direttore del team, il Dottor Rob Ogden, li ha comunicati la mattina del 27 dicembre 2011. “Abbiamo trovato una fortissima corrispondenza con sequenze esistenti di DNA umano. La sequenza genetica che abbiamo scoperto è molto, molto simile a quelle riscontrabili in Cina e nelle vicine zone dell’Asia, anche se non siamo in grado di dire con esattezza quale sia il gruppo etnico di origine.”
Insomma, quel grande dito apparteva ad un asiatico di notevole stazza ed altezza: un uomo o “qualcosa” assai somigliante ad un uomo. Forse, proprio l’anello mancante del nostro albero evolutivo? E se i monaci buddisti di Pangboche avessero detto la verità? Nel frattempo, dal loro tempio è scomparsa la mano che custodivano con tanta cura, rubata da sconosciuti negli anni ’90. E ora pregano il museo inglese di rendere loro almeno quel dito sottratto tanti anni fa. Il dito- ne sono certi- dello Yeti.
SABRINA PIERAGOSTINI
…mmmh…è solo per curiosità…che dito è…