No, il James Webb Space Telescope non ha ancora fatto l’impresa. Il telescopio della NASA, costruito e messo in orbita anche allo scopo di analizzare le tracce chimiche presenti nelle atmosfere di lontani pianeti per individuare la vita extraterrestre, sembrava aver ottenuto un risultato storico: la scoperta di biofirme (ovvero segni di attività biologica) su K2-18 b, un mondo alieno a 111 anni luce da noi. Invece, secondo uno studio recente appena pubblicato sulla rivista Astrophysical Journal Letters, l’annuncio diffuso con entusiasmo nei mesi scorsi è stato quanto meno prematuro: il JWST dovrà continuare a cercare ancora per un po’…
IL TELESCOPIO SPAZIALE JAMES WEBB
Il pianeta in questione aveva destato grande interesse nei ricercatori per le sue caratteristiche: decisamente più grande del nostro (il diametro è il doppio o il triplo di quello della Terra e la sua massa quasi nove volte maggiore), sarebbe un mondo “iceano”, ovvero con vasti oceani di acqua liquida e un’atmosfera composta prevalentemente da idrogeno. Inoltre, si trova nella Fascia di Abitabilità, quindi a una distanza dalla sua stella che consente una temperatura né troppo bassa nè troppo elevata. Inomma, una super-Terra potenzialmente in grado di ospitare la vita. Nel 2023, un team di ricerca dell’Università di Cambridge, utilizzando le informazioni rilevate dal telescopio Webb, aveva affermato non solo di aver trovato tracce di anidride carbonica, di metano e di ammoniaca nell’aria di K2-18 b, ma anche di solfuro di dimetile o dimetil solfuro (abbreviato in DMS). Sul nostro pianeta, questa molecola è prodotta solo dalla vita, per la precisione dalle alghe marine e dal fitoplancton, e dà al mare quel suo tipico odore. Quindi, in questi oceani alieni dovevano esistere forme di vita simili.
UN’IMMAGINE ARTISTICA DI K218-b
Una revisione operata dall’Università della California Riverside ha però raggiunto risultati diversi. «Il segnale DMS rilevato dal telescopio Webb non era molto forte e si presentava solo saltuariamente durante l’analisi dei dati», ha spiegato uno degli autori dello studio, il dottor Shang-Min Tsai. Basandosi su modelli computerizzati che tengono conto della fisica e della chimica del DMS, nonché dell’atmosfera costituita da idrogeno, il team dell’università californiana ha escluso che i dati mostrino la presenza di solfuro di dimetile: quella traccia, infatti, si sovrappone al metano ed è impossible distinguere le due molecole a oltre 110 anni luce. Per poter essere rilevata da quella distanza, la sostanza dovrebbe trovarsi in una concentrazione almeno 20 volte superiore rispetto a quella terrestre. E per riuscire a scovarla, il telescopio spaziale dovrà utilizzare uno strumento in grado di rilevare le lunghezze d’onda degli infrarossi nell’atmosfera, strumento che entrerà in funzione alla fine dell’anno.
SULLA TERRA, IL DIMETIL SOLFURO È PRODOTTO DAL FITOPLANCOTN
Per i ricercatori, dunque, è solo una questione di tempo: prima o poi, i nostri telescopi troveranno la prova che esiste la vita al di fuori della Terra. Se non sarà il Webb, saranno altre strumentazioni, come l’osservatorio Vera Rubin da poco inaugurato nel nord del Cile, che funzionerà a pieno regime dal prossimo agosto. O forse l’ELT (l’Extremely Large Telescope dell’ESO), in costruzione nel deserto di Atacama, sempre in Cile. Oppure l’Habitable Worlds Observatory, il futuro telescopio spaziale americano il cui lancio è fissato per il 2040. Ma non solo tracce di vita primordiale: ci sono anche gruppi di ricerca che sperano di scoprire le cosiddette tecnofirme, un termine con il quale si indica qualsiasi proprietà o effetto misurabile che fornisca la dimostrazione scientifica di tecnologie passate o presenti. Si cerca ad esempio l’emissione di onde radio o anche la presenza di mega istallazioni di ingegneria spaziale note come “Sfere di Dyson”, dal nome dell’astronomo Freeman Dyson che le ha teorizzate.
UN’IPOTETICA SFERA DI DYSON CHE CATTURA TUTTA LA LUCE DI UNA STELLA
Si tratta di strutture gigantesche, per noi inimmaginabili, che un’ipotetica civiltà dello spazio di livello II sulla scala Kardashev (noi siamo ancora al livello Zero) potrebbe aver costruito attorno al proprio sole per sfruttarne tutta l’energia. Un articolo pubblicato all’inizio di maggio 2024 sulle Monthly Notices della Royal Astronomical Society indica quali potrebbero essere le stelle effettivamente avvolte da queste ipertecnologiche strutture su megascala. Nell’abstract si legge: «Presentiamo una ricerca completa di Sfere di Dyson parziali analizzando le osservazioni ottiche e infrarosse di Gaia, 2MASS e WISE. Sviluppiamo una linea diretta che utilizza più filtri per identificare potenziali candidati e respingere gli intrusi in un catalogo di cinque milioni di oggetti. Alla fine, si individuano 7 candidati meritevoli di ulteriore analisi. Tutti questi corpi sono nane rosse di tipo M, per le quali i fenomeni astrofisici non possono facilmente spiegare l’eccesso di emissione infrarossa osservata.»
LE NANE ROSSE SONO MENO GRANDI E CALDE DEL NOSTRO SOLE
Gli studiosi- astrofisici di varie università e centri di ricerca di Svezia, India, Gran Bretagna e Stati Uniti- hanno sviluppato un modello per individuare queste tecnofirme e l’hanno chiamato “Progetto Efesto”, dal nome del dio del fuoco e della metallurgia del mito greco. L’autore principale dello studio è Matías Suazo, giovane laureato del Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Uppsala. Il team ha utilizzato una massa impressionante di dati raccolti negli anni per altri scopi: la mappatura delle stelle della Via Lattea del satellite europeo Gaia, i rilevamenti della volta celeste effettuati dall’Osservatorio Whipple (Arizona) e da quello di Cerro Tololo (Cile) tra il 1997 e il 2001, e le osservazioni nella gamma dell’infrarosso e del medio-infrarosso del Wide-field Infrared Survey Explorer, il telescopio spaziale della NASA in orbita polare. Combinando questa molteplicità di informazioni, i ricercatori sono andati alla caccia di potenziali sfere di Dyson non ancora completate che- scrivono- «emetterebbero calore disperso sotto forma di radiazione nel medio infrarosso ».
IL SATELLITE EUROPEO GAIA HA MAPPATO LA VIA LATTEA
Il problema è che anche molti altri oggetti celesti emettono le medesime radiazioni: gli anelli di polvere circumstellare, ad esempio, o le nebulose. Quindi, il team ha dovuto escogitare un metodo per filtrare i falsi positivi, prendendo in esame solo l’eccesso anomalo di infrarossi che non può essere attribuito a fonti naturali conosciute. Dopo questo primo passo, i candidati rimasti sono stati ulteriormente scremati sulla base di fattori come le emissioni di H-alfa (una particolare riga di assorbimento dell’idrogeno), la variabilità ottica e l’astrometria. Sono così rimaste solo 368 fonti di infrarossi sul campione iniziale di 5 milioni. Alla fine, dopo ulteriori controlli, ne sono sopravvissute appena 7 e i ricercatori sperano che possano essere effettivamente stelle circondate da Sfere di Dyson. «Sono emettitori chiari nel medio infrarosso senza contaminanti o tracce che indichino un’origine evidente di questa radiazione», spiegano. Ma certezze non ce ne sono: pure la presenza di dischi di detriti caldi attorno a queste nane rosse potrebbe spiegare l’eccesso di infrarossi, anche se tali dischi sono molto rari per questo tipo di stelle.
ANCHE LE NEBULOSE EMETTONO UN ECCESSO DI INFRAROSSI
«Dopo aver analizzato la fotometria ottica/NIR/MIR di circa 5 x 106 sorgenti, abbiamo trovato sette nane M che mostrano un eccesso di infrarossi di natura poco chiara che è compatibile con i nostri modelli della Sfera di Dyson», si legge nella conclusione dell’articolo. «Ci sono spiegazioni naturali per l’eccesso di infrarossi proveniente da queste sette fonti, ma nessuna di esse giustifica chiaramente un simile fenomeno nelle candidate, soprattutto dato che sono tutte nane di tipo M.» Per dirimere la questione e togliere ogni dubbio, ci vorrebbe un approfondimento dell’analisi spettrale dell’H-alfa, che potrebbe confermare o scartare l’ipotesi dei detriti. Insomma, servono anche in questo caso altri studi, altre strumentazioni, altro tempo. Ma se il dottor Suazo e i suoi colleghi hanno ragione, potremmo essere di fronte alla prima prova scientifica dell’esistenza non solo di forme di vita non terrestre, ma persino di specie altamente evolute- sicuramente molto più di noi.